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Pianeta Nano

 

Lontano, ai limiti della Nebulosa Oscura di Soulianis e Rahm, c’è un piccolo planetoide che sta sospeso su uno dei suoi bracci spiralati come una decorazione su un albero di Natale. Il minuscolo pianeta, numero di catalogo MPB-1001001, si fa beffe delle leggi della gravitazione universale mantenendo una distanza di rotazione di 150 milioni di chilometri dalla superficie di Rahm; a queste particolari coordinate le nubi di pulviscolo interstellare, idrogeno e plasma della nebulosa sono scisse da flussi gassosi e campi magnetici per rivelare un’oasi di spazio libero privo di detriti e immerso in un tonificante vento solare.

Il minuscolo pianeta, di nome Nano, riesce a vincere l’attrazione della sua stella soprattutto grazie all’enorme massa, composta in prevalenza da materia ultradensa emessa da buchi bianchi, ma anche per via del nucleo dinamico rotante che muove oltre cinquemila invertitori di spinta servo-meccanici. Il posizionamento discreto assicura condizioni di clima costantemente temperate e incoraggia lo sbocciare della vita nelle sue fertili pianure, negli oceani blu e nel copioso numero di fiordi... Abbondanza peraltro inusuale per un pianeta che non ha mai avuto un’era glaciale.

La geografia di Nano è il sogno di ogni cartografo: un singolo continente pangeico distribuito attorno all’equatore, circondato da mari mai colpiti dall’inquinamento e colmi di pesci che aspettano letteralmente di essere pescati.

 

nota della guida L’avverbio “letteralmente” non è in questo caso un travisamento di “metaforicamente”. I pesci della specie Argilodorsi Ameglian Major vengono allevati a suon di racconti su un paradiso che starebbe all’altro capo della lenza, e ronzano attorno ai fiordi in attesa di essere salvati. L’infondatezza di questi racconti sarebbe evidente a chiunque nell’attimo stesso in cui, trascinato via dal proprio habitat naturale, venisse scagliato tutt’intero in una padella sfrigolante, ma tanta e tale è la fede degli Argilodorsi, che si limitano a dibattersi recitando i Dodici Salmi della Redenzione in attesa che appaia l’aurea sfera di plancton.

 

Il nome registrato di questo continente è Innisfree, da quello dell’isoletta sul Lough Gill in Irlanda, sul pianeta da poco disintegrato chiamato Terra, dove si svolgeva il film Un uomo tranquillo. La più grande delle due città del continente si chiama Cong, dal nome del villaggio dove in realtà Un uomo tranquillo fu girato. Questi nomi sono stati scelti dall’ufficiale dell’anagrafe di Nano, tale Hillman Hunter.

Hillman Hunter non è un uomo particolarmente religioso, ma ha fede nell’ordine tradizionale delle cose, laddove l’ordine tradizionale penda nettamente in favore dell’imprenditore. Hillman Hunter crede nei soldi, ed è molto difficile far soldi in tempi di anarchia. Come fa un povero cristo a mettere assieme qualche scellino, quando i piccoli uomini non rispettano quelli al di sopra di loro, e non c’è un Super Capo che dica a tutti come comportarsi? Gli uomini hanno bisogno di questo o quell’altro dio che gli mostri qual è il loro posto nel mondo, e idealmente quel posto dovrebbe trovarsi ben al di sotto di Hillman Hunter.

 

nota della guida L’idea che le religioni possano essere strumenti utili per mantenere ricchi i ricchi e sottomessi i poveri circola da subito dopo la notte dei tempi, quando un ranocchietto da poco evoluto in bipede riuscì a convincere tutti gli altri ranocchietti dello stagno che i loro destini erano governati dall’onnipotente Foglia di Ninfea, che avrebbe accettato di vegliare sull’acquitrino proteggendolo dal luccio boccaccia solo se ogni due venerdì gli fosse stata ammonticchiata un’offerta di mosche e piccoli rettili. La cosa funzionò per quasi due anni, fino a che uno dei rettili sacrificali non si mostrò appena meno che morto e provvedete a sbranarsi il ranocchietto bipede con tutta la Foglia di Ninfea. La comunità dei ranocchietti festeggiò il riscatto dal giogo della religione con un rave party che durò tutta la notte, e con foglie di acetosa allucinogena. Sfortunatamente i festeggiamenti furono un po’ troppo rumorosi, e furono tutti massacrati da un luccio boccaccia che, per misteriosi motivi, non s’era mai accorto prima del loro piccolo insediamento.

 

Hillman Hunter è giunto a credere che questo nuovo mondo dovrebbe avere un dio che promulghi dei comandamenti, castighi i peccatori e dichiari quali forme coniugali siano gradite ai suoi occhi e quali invece siano sbagliate e oscene. Poiché Nano fu creato al di là di ogni dubbio dai magratheani e non da Dio, non ha una divinità che lo governi, e la cosa ha provocato grandi dibattiti nella comunità. L’ordine naturale sta cadendo a pezzi, e ogni sorta di individui comincia a considerarsi eguale a coloro ai quali sono visibilmente uguali, cosa del tutto al di fuori di ogni religione. Hillman ha deciso che è necessaria la presenza di un dio che presieda al ripristino dell’ordine di beccata, così questo preciso giovedì, in una piccola sala conferenze accanto al palazzo municipale della città, sta tenendo dei colloqui con degli aspiranti al posto.

 

 

Città di Cong, Innisfree, Nano

 

Un enorme antropoide era seduto poco comodamente nella poltrona della sala colloqui, il busto grottesco e squamato che si dimenava in quei confini ristretti. Dei tentacoli gli pendevano dal mento come lumaconi in fuga e gli occhi neri come carbone brillavano dalle profondità di un volto poltiglioso.

Hillman Hunter sfogliava le pagine del curriculum della creatura.

«Dunque... signor Cthulhu, giusto?»

«Hmmm» fece la creatura.

«Bene» disse Hillman. «Un tocco d’ineffabile, mi piace questo, in una divinità.» Strizzò l’occhio, complice. «Ciononostante, non sarebbe un gran colloquio approfondito se non le tirassimo fuori un po’ di informazioni, no, signor Cthulhu?»

Cthulhu si strinse nelle spalle e sognò i giorni andati dei genocidi gratuiti.

«Orsù, rimbocchiamoci le maniche» fece Hillman allegro. «O come usava dire la mia Nano, diamoci a spalare quel che fuma, che era un riferimento a pulire i bisogni dei buoi dopo che il branco era stato condotto per la strada. È così che ho iniziato, signor Cthulhu, vendendo quei biscottoni secchi delle vacche da utilizzare per il camino. E mi guardi adesso, per tutti i trifogli, sono alla guida di un pianeta!»

Hillman scoppiò in un’improvvisa risata che suonava come un vecchio macinino arrugginito che veniva messo in moto.

«Mi perdoni, signor Cthulhu. Fumavo come un treno nella vecchia patria e non ho avuto un momento per mettermi in lista d’attesa per un paio di polmoni nuovi. Essere al comando di questa massa di stramaledetti rammolliti mi sta riducendo a brandelli.» Fece danzare le dita fra le pagine del curriculum di Cthulhu. «Vediamo. Cos’abbiamo qui? Con che calibro di divinità ho a che fare? Ah... vedo che è stato parecchio nelle menti della gente, un secolo fa, grazie a Lovecraft. Nient’altro di significativo, dopo di questo?»

Cthulhu parlò con voce di carne e metallo. «Be’, sa. La scienza e compagnia bella... hanno messo un po’ in crisi il settore divinità.» Una sostanza gelatinosa trasparente gli colava dai tentacoli mentre parlava. «Sono stato per un po’ in giro per l’Asia Minore, cercando di seminare un po’ di paura. Ma la gente ha la penicillina adesso, persino i più poveri hanno delle letture. Che se ne fanno degli dèi?»

Hillman annuì mentre ascoltava, del tutto concorde. «Quanto ha ragione, sir. Ragionissima. Si credono tutti troppo in gamba per gli dèi. Troppo svegli. Ma non qui su Nano. Siamo l’ultimo avamposto del pianeta Terra e non ci faremo distruggere per avere scacciato il nostro ultimo protettore.» Mentre finiva il discorsetto, le guance grassocce di Hillman brillavano fiere e rubizze. «Prossima domanda. Il nostro ultimo dio era un tipo sul minimalista, meno fai e meglio è. Mandò giù suo figlio, ma non si fece vivo granché di persona. Ritengo, senza con questo voler mancare di rispetto al tizio, che probabilmente fu un errore. Credo onestamente che l’ammetterebbe lui stesso, se potessimo chiederglielo ora. Quello che le sto domandando, signor Cthulhu, è: intende essere un dio interventista o un padrone distante?»

Cthulhu era preparato sull’argomento; aveva ripassato la risposta a questa precisa domanda proprio la notte prima, insieme a Hastur l’Innominabile.

«Oh, interventista, assolutamente» disse, chinandosi in avanti a guardarlo fisso negli occhi come gli aveva consigliato Hastur. «I giorni della fede cieca sono finiti. La gente ha bisogno di sapere chi è che gli devasta il raccolto o domanda sacrifici di vergini. E adesso distolgo lo sguardo, ma solo perché un contatto visivo diretto troppo prolungato potrebbe farla impazzire.»

Hillman scosse dalla mente il torpore improvviso. «Bene. Bene. Bello sguardo, che ha, signor Cthulhu. Un’arma a portata di mano nel suo arsenale.»

Cthulhu accolse il complimento col battito di un prodigioso tentacolo.

«Proseguiamo, okay? Dove si colloca nella diatriba sul Pesce Babele? La dimostrazione è una negazione della fede, eccetera...»

«I miei sudditi avranno fede e dimostrazioni» disse con voce roca Cthulhu, nervoso. «Li piegherò in schiavitù e schiaccerò i deboli sotto i miei piedi.»

«Credo di aver toccato un nervo scoperto, qui» ridacchiò Hillman. «Ma credo che lei sia sui binari giusti, magari però eviterà di andarci troppo pesante con la schiavitù e gli schiacciamenti. Abbiamo un sacco di gente debole, ma sono forti sostenitori della Chiesa, pronti a sobbarcarsi a qualunque impegno essa richieda. È con i soldi che si costruiscono i templi, o come era solita dire la mia Nano, molti bruscoli fanno una briscola.»

«Bruscoli?» disse Cthulhu, confuso, e non è tanto facile confondere uno dei Grandi Antichi.

Hillman si grattò il mento. «Non ho mai saputo che cosa fosse un bruscolo, in effetti. Ma ce ne vogliono tanti di quello per fare quell’altro, ecco.»

«Hmmm» fece Cthulhu.

«Dunque. Una classica, adesso. Supponiamo che la sua richiesta venga accolta; dove si vede da qui a cinque anni?»

Cthulhu si rallegrò. “Grazie Hastur” sorrise rivolto verso lo spazio.

«Nel giro di cinque anni avrò raso al suolo questo pianeta, ne avrò divorato la discendenza e avrò ammonticchiato tutti i teschi in un’enorme pila in mio onore.»

Un colpo di tosse eruppe dalle labbra di Hillman. «Ammonticchiare teschi! Su, signor Cthulhu. Dice davvero? Crede sia questo che fanno gli dèi, oggigiorno? Siamo in un’epoca interstellare, viaggi nello spazio, nel tempo. Ciò di cui abbiamo bisogno qui su Nano è quello che io chiamo un dio da Vecchio Testamento. Severo, d’accordo. Vendicativo, eccellente. Ma divorare indiscriminatamente intere discendenze... quei tempi sono finiti.»

«Se lo dice lei...» borbottò Cthulhu, incrociando le gambe.

Hillman batté il dito sul curriculum. «Ho sottolineato delle cose, qui. Alla voce “condizione attuale” leggo: “morto ma sognante”. Potrebbe approfondire il concetto? Lei è morto, signore?»

«Si potrebbe affermare che sono morto» ammise l’antropoide bavoso.

«Non sembra morto.»

«Ah, sì, ma queste esili sembianze non sono le mie.» Cthulhu si toccò il corpo come se non avesse avuto idea di come funzionasse. «Questo è il sogno che ho di me, al quale oscure e terribili forze hanno dato corpo. Mi sono incarnato in queste fattezze nell’attesa che la mia forma sia richiamata all’opera. Le mie vere sembianze sono un bel po’ più grandicelle.»

«Mi perdoni se insisto su questo tasto, ma lei è morto?»

«Momentaneamente. Sì. Direi di sì.»

«Ma gli dèi non possono morire. È questo il punto.»

Cthulhu rimpianse di non avere Hastur accanto. Hastur aveva sempre una risposta pronta.

«Be’... questo è vero. Ma su un piano strettamente formale, e sottolineo, formale, immagino di non potermi definire esattamente un dio. Sono uno dei Grandi Antichi. Un semidio, potremmo dire.»

Hillman chiuse il fascicolo. «Oh» disse. «Capisco.»

«È più o meno la stessa cosa» insisté Cthulhu. «Faccio le stesse cose: apparizioni, ingravidamenti, qualunque cosa le venga in mente. Ho le tessere dei locali di Asgard e dell’Olimpo. Tessere onorarie.»

«Tutte cose ottime, validissime, ma...»

«Non fa niente» disse Cthulhu disgustato, schizzando la sostanza gelatinosa sulla scrivania. «Siete tutti uguali. Mai che diate una chance ai più piccoli.»

«Non è questo, signore. Non ho nulla contro la sua categoria, ma l’annuncio parlava specificamente di dio di Classe A. Non dubito che lei sia in grado di fare un sacco di cose, ma stiamo cercando qualcuno con un po’ di sostanza. Qualcuno che regga nel lungo periodo. Di certo non qualcuno che possa morire.»

Cthulhu si alzò dalla poltrona in preda all’ira. «Ti spacco il cranio in due» tuonò. «Invierò pestilenze sulle tue terre.» Ma non era più desiderato e già cominciava a scomparire. «Ti strapperò la testa dal collo e berrò il tuo...»

Poi sparì, senza lasciarsi dietro nient’altro che l’odore di un porto in bassa marea.

“Berrò il tuo cosa?” si chiese Hillman Hunter, scribacchiando con l’evidenziatore le parole non richiamare sulla copertina del curriculum di Cthulhu.

“Sangue probabilmente. A meno che non si riferisse al liquido cefalorachideo.”

Si lasciò ricadere sulla poltrona e accese il massaggiaschiena. Hillman era un tipo fiducioso, sempre pronto a guardare al lato buono delle cose, ma questa caccia al dio cominciava a diventare frustrante. Non uno dei candidati che fosse all’altezza dei suoi standard. Excello, il dio robot. Vladirski, signore dei vampiri. Ecate aveva doti interessanti, ma era femmina. Una dea per Nano? Eh no, diamine.

E come se la caccia agli dei non fosse stata già abbastanza laboriosa, aveva dovuto affrontare i conflitti con l’altra colonia. Ammazzare della gente per un po’ di formaggio, avete mai sentito nulla di più ridicolo? Un po’ di cheddar è ottimo sul pane tostato, ma non è buono da morire. E c’era il problema delle maestranze, che si allontanavano in massa dalla città. C’erano giorni in cui Hillman avrebbe avuto voglia di restarsene a letto.

«Non ti ci vuole che una bella tazza di tè con dei biscotti!» disse Hillman, imitando la voce gracchiante di sua nonna, una voce che usava spesso per motivarsi. «E diventerai grande.»

Il pensiero stesso del tè lo fece sentire meglio. Cos’era un irlandese senza il tè?

«Smuovi il culetto, Hilluccio» disse con il tono di Nano. «Questa gente ha bisogno di te.»

Era vero. I coloni avevano davvero bisogno di lui, specialmente dopo il rapimento di Jean Claude. Ciò di cui Nano aveva bisogno era un dio vero e concreto che saettasse un po’ di disciplina nei suoi concittadini. Ma come fare per attirare un dio di Classe A fino alle propaggini dimenticate del Braccio spiralato Ovest della Nebulosa Oscura di Soulianis e Rahm? Ci sarebbe voluto uno spaventoso pacchetto di benefit, questo era certo.

Hillman si annotò l’indirizzo sub-Età di Cthulhu, per ogni eventualità.

 

nota della guida Gli dèi nacquero una manciata di milionesimi di secondo dopo il Big Bang, il che significa in sostanza che non furono loro a creare l’universo; piuttosto, fu l’universo a creare loro. Si tratta di una materia particolarmente spinosa fra le gerarchie ecclesiastiche e assolutamente vietata al tavolo di un pranzo. Se un giornalista dovesse avere la temerarietà di affrontare l’argomento potrebbe ritrovarsi oggetto dei castighi più strambi e fantasiosi. La maggior parte delle divinità esiste da così tanto tempo da aver potuto assemblare intere librerie sull’argomento dei castighi strambi e fantasiosi. Non più tardi di diecimila anni fa sul monte Olimpo si tenevano seminari sull’argomento, seminari che poi s’interruppero per via del crescente numero di divinità minori che presenziavano agli incontri tanto per avere una scusa per bere e fornicare, cosa che produsse un’inflazione di nuovi deietti meticci privi di mitologie di riferimento. Finché durarono, questi seminari ospitarono un premio annuale a forma di Pesce Palla Spinoso, in onore del famoso tiro mancino con cui Loki trasformò un sessuomane in un pesce palla pieno di aculei che avvelenava chiunque tentasse di abbracciare. Tra i premi Pescepalla particolarmente degni di nota va menzionato quello attribuito a Heimdallr il quale, in preda al risentimento, trasformò una banda di muratori, che avevano osato alzare il prezzo, proprio nello stesso muro che s’erano rifiutati di completare. Un altro andò a Dioniso per la punizione inferta a sir Smoog Nowtall, l’attore di Blagulon Kappa, che aveva interpretato il monologo, leggermente critico sull’argomento, intitolato Scherza coi santi. Dioniso, la cui area d’azione era il teatro, era un individuo tollerante e di larghe vedute, e avrebbe lasciato che la rappresentazione si svolgesse, se non ci fosse stata una scena in cui lui stesso era tratteggiato come un flatulento ingordo imbecille. Dioniso s’infuriò così tanto per quel monologo, e per le recensioni positive che raccolse, che condanNowtall a essere trasformato per l’eternità nel posteriore di un costume teatrale da asino, le cui natiche erano le teste dei suoi critici più aspri che recitavano perennemente le loro recensioni più mordaci. Un classico.

Gli dèi se l’erano spassata per milioni di anni a gironzolare per il cielo nei loro carri, a mostrarsi simultaneamente in luoghi differenti, a fare i sapientoni eccetera, ma giunse un momento in cui la scienza si sviluppò a tal punto da poter riprodurre tutti i loro trucchi. Devastare un raccolto non era più questa gran cosa, come un tempo. Le gravidanze di ragazze vergini erano episodi comunissimi; a dirla tutta, molte società preferivano questa soluzione, che tagliava di molto la presenza di suoceri e parenti acquisiti, e i genitori non dovevano più temere che i loro figli facessero qualcosa di brutto con degli estranei. L’ultima goccia per gli dèi fu quando Fenrir, il gigante figlio di Loki, cercò di impressionare i suoi sempre più radi fedeli andandosi a cacciare con la moto spaziale dentro un buco bianco. L’unica parte rimasta intatta di Fenrir dopo il salto fu uno dei molari, che adesso è un asteroide luccicante in orbita attorno a Sagar 7, e i cui poteri si limitano ormai a influenzare le maree e comunicare messaggi sibillini ai chiaroveggenti. Gli dèi ne rimasero inorriditi (tutti eccetto Odino, perché era stato vaticinato che Fenrir lo avrebbe divorato al tempo del Ragnarök e se la ridacchiò sotto i baffi) e si ritirarono nei loro mondi d’origine, facendo voto sempiterno di non fraternizzare mai più con i mortali (la frase esatta fu: “Umani, si fottano”, ma suona un po’ meno da divinità senza le espressioni “far voto”, “fraternizzare”, e “sempiterno”). Tanto risoluti erano gli AEsir nel loro giuramento, che circondarono il loro mondo, Asgard, con una barriera di ghiaccio lasciando un solo punto d’accesso, Bifrost, il Ponte dell’Arcobaleno, sorvegliato dal dio onniveggente Heimdallr.

I visitatori non erano incoraggiati.

A dirla tutta, l’approdo di visitatori era attivamente scoraggiato da feroci draghi mangiacarne, succube sirene succhia-anima, e dal Flyting, un’oscena tecnica d’insulto scandinava che prende di mira i genitali e la discendenza familiare.

Gli dèi non volevano avere nulla a che spartire con i mortali. In particolare con i giornalisti investigativi, e ancor più in particolare con gli uomini devoti in cerca di una sorta di ricompensa nell’aldilà. Ma di tutte le persone, quella meno benvenuta ad Asgard era il Presidente Galattico Zaphod Beeblebrox, e a ciascuno dei draghi era stata data da annusare una delle sue camicie.

 

 

La Cuore d’Oro

 

La Cuore d’Oro navigava attraverso lo spazio variopinto e multitexturizzato di ogni luogo. Quando la propulsione a Improbabilità era attivata, la nave diventava parte dell’universo stesso fino a che le coordinate non s’incuneavano nei cilindri schizzando l’astronave dritta alla sua corretta destinazione nell’equivalente interstellare di un tata!, terrorizzando a morte la persona ferma nel parcheggio accanto. Ma fino a quel momento, poteva accadere qualsiasi cosa, specie una qualsiasi cosa che fosse altamente improbabile, cosa che poi la rendeva di fatto probabile, e quindi di nuovo improbabile, all’infinito.

Gran parte della gente durante le navigazioni a improbabilità preferiva chiudere gli occhi per proteggere la mente dalle impossibilità che gli accadevano accanto, ma Zaphod spesso si attaccava le palpebre con lo scotch per tenerle aperte e non perdersi nulla dello spettacolo.

Durante il viaggio verso Asgard, Dionah Carlinton-Housney, una delle cantanti/prostitute preferite di Zaphod, si manifestò dall’oltretomba per cantare in un falsetto isterico dei versi presumibilmente profetici.

«Oh, Zaphod, ba-a-a-aby, il pugno colpirà duro.»

“Ehi” pensò Zaphod. “Il mio nome in una canzone. Frugo.”

«Oh, mio Zaphod, ba-a-a-aby, dovrai scalare quel muro.»

Zaphod provò a battere il tempo con le mani, ma erano lontane chilometri, le sue braccia si stendevano lunghissime nello spazio.

«Hai un bell’aspetto, Dionah. Fantastico, a dirla tutta. Niente decomposizione, niente di niente. Ho sempre sperato che l’oltretomba fosse così.»

Dionah gli pose tre mani sulle labbra, mentre la quarta teneva l’asta del microfono.

«Non mi stai ascoltando, signor presidente.»

«Non voglio ascoltare. Voglio farti delle domande. Riesci a prendere molti canali sub-Età lì dove sei? Adoro PerseguitaVip. Si prende da lì?»

Dionah liquidò con un gesto della mano l’argomento frivolo, e proseguì con il suo brano. «Zaphod, ba-a-a-aby. Dovrai percorrere quel ponte.»

«Ce li avete gli alcolici?»

«Gli dirai il suo nome segreto, ba-a-a-aby, e ti lascerà passare sua sponte.»

«Sì, d’accordo. Ponti, come ti pare. Ma, seriamente, ti sei fatta fare qualcosa?, perché ti trovo persino meglio, adesso...?»

Dionah lo fulminò con lo sguardo. «Tuo nonno me l’aveva detto di non venire. “Quel ragazzo è un idiota” aveva detto. “Non ti ascolterà, non ascolta mai.”»

«Era criptica» protestò Zaphod. «Una cosa criptica è difficile.»

«Criptica! Era una cazzo di filastrocca da asilo infantile. L’avrebbe capita qualunque imbecille.»

Zaphod si accigliò. «Una roba su un muro e un ponte.»

«E il nome segreto. Su, signor presidente. È una cosa importante.»

«Non c’era anche un pugno da qualche parte? Mi piacciono le cose con i pugni, specialmente quando c’è il pollice alzato. Una volta ho visto un cartone, c’era un idiota che alzava il pollice ma se lo infilava nell’occhio e...»

«Oh, per l’amor di zark» disse Dionah, e si trasformò in una scultura di ghiaccio, e prese a sciogliersi, gocciolando in su verso il soffitto. Ogni volta che una goccia toccava i pannelli, esplodeva con un “oh” tintinnante.

«Quella ragazza ha sempre avuto una gran voce» mormorò Zaphod, poi si lasciò ricadere sullo schienale e attese il ritorno della probabilità.

Vide due incredibili colori nuovi, che il suo cervello non avrebbe saputo definire meglio che “pericoloso” e “subdolo”, e squarci frastagliati si spalancarono sulle pareti della nave come se la Cuore d’Oro venisse speronata da una colossale creatura piena d’aculei.

«Woah!» strillò Zaphod, mentre un aculeo gli sbucava proprio in mezzo alle gambe. «Quanto manca alla normalità, Cervello Sinistro?»

Cervello Sinistro sbucò da un fusto di gel elettrolitico sulla console principale.

«Chi può saperlo, in un ambiente del genere?» fece, il gel che gli discendeva a grumi dalla sfera antiattrito. «In tempo reale cinque secondi, ma non necessariamente secondo l’ordine o uniformità cui siamo abituati.»

La normalità ritornò tra un nitrito di minuscoli pony e una processione di scheletri animati che intonavano dei canti sul ponte della nave.

«Riesco a vederti attraverso» cantavano «riesci a vedermi attraverso?»

I pony e gli scheletri sparirono e il ponte ritornò a essere quel po’ normale che poteva arrivare a essere di solito, considerato che il navigatore della nave era la testa senza corpo del capitano.

Zaphod sbatté le palpebre. «Siamo in normalità, CS?»

Cervello Sinistro zoomò per la cabina principale, scambiando dati con i vari sensori a infrarosso installati negli strumenti.

«Affermativo, Zaphod. La propulsione a Improbabilità ha effettuato il turbinamento discendente e siamo tornati nello spazio reale.»

«Eccellente» disse Zaphod, slacciando le cinture della sua poltrona di navigazione. «Ho difficoltà a cogliere la differenza, certe volte, tra quelchessì e quelchennò.»

Balzò in piedi, barcollando verso lo schermo panoramico, i tacchi degli stivali argentati che tintinnavano sul pavimento in ceramica.

«Okay. Dunque, cos’abbiamo qui? Un pianeta ricoperto di ghiaccio. È esattamente quello che non mi sarei aspettato di vedere. O piuttosto, mi sarei aspettato di vederlo dall’interno. Perché siamo fuori dalla barriera, CS? Opperché, opperché?»

Cervello Sinistro strizzò un occhio, l’espressione tipica di quando analizzava dei flussi di dati.

«Gli AEsir hanno innalzato un nuovo scudo dalla nostra ultima visita.»

Zaphod sferzò l’aria con un pugno, come un filosofo frustrato che cerca di forzare un concetto esistenzialista in una mente pragmatica.

«Questi scaltri immortali con le loro barbette e gli elmi cornuti. Pensavo che gli scudi non funzionassero con le propulsioni a Improbabilità.»

Cervello Sinistro fluttuò per qualche attimo senza parole, scorrendo milioni di calcoli al secondo, raffinando la sintassi, piallando via ogni elemento sintattico superfluo fino ad arrivare a: «Tu pensavi? Ma non farmi ridere».

Zaphod eseguì un mal concepito calcio rotante Du-Bart’ah che mancò di diversi metri la sfera galleggiante e fece cantare come un violino il suo tendine inguinale.

 

nota della guida Il calcio del Presidente Beeblebrox fu mal concepito perché l’antica arte del Du-Bart’ah era stata elaborata dagli Shaltanac di Broop Kidron Tredici, che erano una razza gaia e pacifica. Il calcio rotante era utilizzato per far cadere le bacche di Joortillo dagli arbusti arrecando il minimo disturbo possibile alla pianta stessa. Ogni tentativo di utilizzare il Du-Bart’ah per usi aggressivi attivava il condizionamento subliminale incluso nei canti d’allenamento rivoltando il corpo dell’aggressore contro se stesso. Zaphod non lo sapeva, perché aveva appreso la tecnica da un ologramma sul retro di una scatola di cereali ZugaNugget.

 

«Seriamente, Zaphod» disse Cervello Sinistro, galleggiando a un’altitudine di sicurezza. «Abbiamo una missione da compiere; non è il momento per le tue solite misere pagliacciate.»

«È sempre il momento per le pagliacciate» mugolò Zaphod dalla sua posizione fetale, aggrovigliato allo stelo di una poltrona. «Sono le pagliacciate a tirarmi giù dal letto al mattino.»

Cervello Sinistro sapeva che questo era vero, ma non aveva mai capito il perché. «È per questo che siamo qui, Zaphod? Per darti qualcosa da fare?»

Zaphod si pizzicava dolcemente il tendine. «Io sono Zaphod Beeblebrox, CS, e con la vita che ho vissuto è solo questione di tempo prima che io incappi in un mastodontico crollo. La mia priorità è allontanare il più in là possibile quell’eventualità.»

Cervello Sinistro de-strizzò l’occhio. «Non credo che quello sarà un problema. Non considerata la potenza di fuoco dispiegata contro di noi.»

«Fantastico» esclamò Zaphod, che aveva già dimenticato il tendine stirato. «Sembrano passate ere geologiche dall’ultima volta che abbiamo dovuto fronteggiare condizioni impossibilmente avverse e senza ragionevoli possibilità di sopravvivenza.»

«Mai abbastanza» disse Cervello Sinistro, e trasferì la chiamata in arrivo sullo schermo principale.

«No» disse Heimdallr, il dio della Luce, enfatico.

«Ma non ho...»

«No!» ripeté Heimdallr, l’enorme testa calva che occupava l’intero schermo, gli occhi rossi che ribollivano come giganti gassosi.

Zaphod ritentò. «Non sai neppure quel che...»

«No. No. No. Non m’importa di che si tratta. No, è questa la risposta. Adesso, andate a improbabilizzarvi da qualche altra parte, prima che scateni i draghi contro di voi.» . «Ascoltami solo un attimo» l’implorò Zaphod.

«Noo.»

«Cinque secondi, che male fa?»

«No. Qualunque domanda tu possa avere da pormi, la risposta sarebbe comunque no.»

Zaphod la sputò lì rapida. «È in casa, Thor?»

«No, diamine, no!» ruggì Heimdallr, le punte dei baffi incerati che gli vibravano.

«Per davvero?»

Il dio di Asgard mostrò i denti. «In realtà, sì. Sì, è in casa. Sei nella stramaledetta Asgard, vero?»

«C’è! Potrei...»

«No. È tornato a farsi negare, amico. E quando dico “amico”, intendo dire “mio odiato nemico che mi piacerebbe vedere sbudellato e poi cosparso di sale”.»

«Andiamo, Heimdallr. Dimentica tutti quei malintesi e negoziamo un po’. È una faccenda importante.»

Le guance di Heimdallr erano così paonazze che pareva materialmente possibile vedergli la testa esplodere.

«Malintesi? Malintesi un zark. Hai una gran bella faccia tosta, Sterco-brox. Sei più maledettamente impudente di un secchio di impudoliti.»

 

nota della guida “Impudoliti”, sassolini di colore grigio chiaro frequenti su Damogran e particolarmente insolenti.

 

«Che ne diresti se ci lasciassimo il passato alle spalle, là dove deve stare, e ripartissimo da zero? Potremmo, no? Siamo entrambi degli adulti ragionevoli.»

«Noi siamo degli adulti ragionevoli, ma dovresti vedere Thor, adesso. Non è che un fascio di nervi con un elmo sopra, dopo quello che gli hai combinato.»

«È per questo che voglio parlare con il ragazzo. Per spiegare.»

Heimdallr si prese qualche istante per degli esercizi di respirazione, dimenando una mano inguantata davanti alla faccia e alitandosi sulle dita.

«Spiegare?» disse infine. «Vuoi spiegare?»

«Sì, è tutto quello che voglio da voi splendidi dèi» disse Zaphod con un tono capace di spingere dai sucoràmpi di Piaggeratia a correre in cerca di sacchetti per il vomito. «Un’occasione per spiegare, e se possibile fare ammenda, per i miei errori del passato.»

«Ammenda, eh?» fece Heimdallr. «Lo credo bene che tu debba fare ammenda.»

«Sì. Sì, certo che devo. Mi pento e merito una penitenza.»

«Lo so cosa stai tentando di fare» disse Heimdallr, guardandolo in cagnesco. «Stai cercando di far breccia sul mio narcisismo da divinità. Chi credi di infinocchiare?»

«Sono serio. Guarda questa faccia.»

Heimdallr si protese in avanti fino a che i suoi occhi non occuparono l’intero schermo. Erano occhi capaci di fendere la ciccia delle bugie di una persona normale e penetrare fino all’osso di verità nascosto al suo interno.

«Molto bene. Zaphod Bastardbrox. Vieni qua fuori e parliamo della tua ammenda.»

«Venire fuori? Nello spazio? Non farà freddino?»

«Non temere, o mortale. Ti porgerò una bolla d’atmosfera.»

«Devo uscire e basta, perciò?»

«Vieni fuori, Zaphod. Hai un minuto di tempo per decidere.»

Cervello Sinistro aleggiò sopra la spalla di Zaphod.

«Credo proprio che ti tocchi andare» disse. «Non pensare a me. Starò bene dentro la nave. Sono certo che la bolla d’atmosfera resisterà.»

«Puoi verificare?»

Cervello Sinistro strizzò l’occhio per un attimo, poi fu percorso da uno spasmo mentre un fulmine dardeggiava all’interno della sua sfera.

«Il computer asgardiano non condivide le informazioni, a quanto pare.» Piccoli ragnobot zampettarono per il vetro, mordicchiando le cicatrici. «Non c’è una linea in uscita dall’intero pianeta. Se esci là fuori, sei solo.»

Zaphod sospirò e si sistemò il cappotto. «Quelli come me, CS, noi veri grandi... siamo sempre soli.»

CS annuì. «Questa era davvero bella, ma non ero pronto con l’illuminazione. Dammi un secondo, poi riprova.»

«Okay. Qualcosa di caldo. E non direttamente da sopra. Mi fa sembrare i capelli troppo sottili.»

Cervello Sinistro s’interfacciò con le illuminazioni della nave e proiettò un faretto giallo sul viso di Zaphod.

«Pronto?»

«Che tipo di motivazione ci vedevi?»

«Grandezza. Pura incontaminata grandezza.»

Zaphod annuì grave a quella risposta, accogliendone la verità. Si stiracchiò le dita e parlò lentamente.

«Quelli come me...» cominciò, e Cervello Sinistro spalancò un portello e lo sparò dritto nello spazio.

 

nota della guida Come spesso accade alle dinastie divine, anche gli AEsir, gli dèi di Asgard, non sono esattamente i più grandi pseudopodi degli ameboidi. Adorati in meno di un migliaio di mondi, possono essere classificati come dèi di livello intermedio. Zeus, il padre dei loro rivali dell’Olimpo, ha spesso affermato pubblicamente di essersi “tolto dall’ombelico pelucchi di lanugine più grandi di Asgard”, ma si tratta con ogni probabilità di un semplice tentativo di esacerbare la leggendaria invidia planetaria di Odino. Odino e Zeus hanno avuto per diverse migliaia di anni dei “dissapori”, che ebbero inizio quando Zeus trasformò per errore Odino in un cinghiale selvatico durante una delle sue visite “prendi forma umana e puccia il biscotto in giro” sul pianeta Terra. Ma sebbene gli dèi di Asgard non abbiano ottenuto lo stesso grado di penetrazione degli olimpici, e neppure quanto uno degli dèi ultimi arrivati come Pasta Fasta, che iniziò la carriera come mascotte di una catena di ristoranti, sono significativi per il contributo che hanno dato alla cultura popolare, in particolare grazie al corno, che adoperano per decorare i loro elmi cerimoniali, per creare musica e, cosa più importante di tutte, riempirli di birra. Alcuni ricercatori hanno postulato che se nel loro lessico fosse mancata la frase “Ti andrebbe un corno di birra?” diversi mondi non sarebbero mai emersi dalle loro rispettive fasi cataclismiche di guerre planetarie.

 

Heimdallr, il Dio della Luce, lasciò Zaphod a dibattersi nel vuoto nero inchiostro per ventinove secondi prima di lanciargli uno yo-yo d’atmosfera per riavvolgerlo fino in salvo. Nel corso di quei ventinove secondi Zaphod Beeblebrox fu costretto a pensare fra sé e sé anziché trasmettere direttamente i suoi pensieri all’universo come preferiva fare solitamente. La sua riflessione infestata di digressioni ebbe come risultato il citatissimo Monologo interiore di Beeblebrox, del quale sono state pubblicate due differenti versioni: quella ufficiale, che Zaphod divulgò dopo un fine settimana nella tenuta dello scrittore Oolon Colluphid, e la versione non ufficiale, che venne raccolta telepaticamente da Cervello Sinistro e inclusa nella sua autobiografia, La vita in una boccia per i pesci. Entrambi i resoconti verranno qui presentati di modo che possiate decidere voi stessi quale più si avvicini alla verità.

 

 

LA VERSIONE UFFICIALE

 

E dunque, il momento è giunto. Piango amare lacrime, non per me stesso, ma per coloro ai quali fu negata l’estasi di conoscere Zaphod Beeblebrox. La gente conoscerà il mio nome, suppongo. Beeblebrox ha fatto alcune piccole cose nella sua breve esistenza. Come verrò ricordato? Come una supernova, forse, un corpo celeste che scintilla nel cielo notturno, una luce nell’oscurità, che dona a coloro i quali ne sentono il calore sul viso un momento di meraviglia e forse di speranza. Tanto potrebbe bastare. C’è chi affastella elogi sulle mie spalle, lodandomi come un profeta, un rivoluzionario, un grande appagatore di donne. Accolgo tali elogi con benevola modestia, ma se potessi scegliere il mio stesso epitaffio, direi semplicemente che Zaphod Beeblebrox sorprese tutti. Positivamente.

 

 

E LA VERSIONE NON UFFICIALE

 

Oh zark. Grande... Grande... GRAAAAAAANDE. Spazio dappertutto, e niente aria. I capelli mi si afflosceranno. E a gravità zero tendo sempre a gonfiare. Heimdallr, maledetto bastardo che sei. Guarda, una palla di ghiaccio. Liscia, splendente, mi verrebbe da leccarla. Che mutandine ho addosso? Per l’autopsia, bisogna pensare a queste cose. Nuove e con drenaggio, spero. Ford, amico. Sei stato frugo, siamo stati frughi assieme. Io un po’ più frugo di te. Scommetto che sarà una notizia da prima pagina. Non accade tutti i giorni che un Presidente Galattico venga sputato fuori da un portello dalla sua stessa testa.

 

 

C’era una terza versione, che guizzava appena sotto la superficie della coscienza di Zaphod. Cervello Sinistro non la udì e Zaphod l’avrebbe poi dimenticata.

“E così” si disse fra sé la personalità sepolta di Zaphod “non avendo trattenuto il fiato non ci saranno danni ai polmoni, ma questo significa che ho meno di un minuto prima che il sangue privo di ossigeno raggiunga il mio cervello. Avrei potuto fare così tante altre cose con il mio tempo...”

 

 

Asgard

 

Il Dio della Luce osservò Zaphod in preda agli spasmi, non senza una certa soddisfazione nel suo sguardo onniveggente. Ritto all’estremità del Bifrost, il portale fra Asgard e il resto dell’universo, contava i secondi che restavano fino al momento in cui avrebbe dovuto scegliere fra trarre in salvo l’ex manager di Thor o lasciarlo morire.

Non pareva una vera e propria scelta, dal momento che Heimdallr detestava i mortali in generale (eccetto il nobile Sigfrido dell’omonima leggenda) e Beeblebrox nello specifico, ma lasciar morire degli umani nelle vicinanze di Asgard era una cosa decisamente disapprovata da Odino, in quanto i martiri avevano la tendenza a vivere per sempre. Cosa ironica, dal momento che erano defunti. O forse paradossale, non ironica; una di quelle parole complicate che Loki continuava a ripetere per innervosirlo. Heimdallr era un soldato e non si riempiva la testa di vocaboli esotici. Inseguire, ammazzare, incendiare, scotennare. Era quello il genere di lessico che amava. Specialmente “scotennare”, ma era difficile introdurlo nelle comuni conversazioni quotidiane.

Heimdallr s’imbronciò un momento, poi scagliò un viscido nastro di plasma che si dipartì ondeggiando dalla punta del Gjallarhorn, il leggendario corno che un giorno avrebbe annunciato l’avvento del Ragnarök. A un osservatore disattento, Gjallarhorn potrebbe apparire come il classico corno da urla lungo sette metri, ma nelle mani di un dio diventava uno strumento di enorme potenza e un comodo recipiente sempre a portata di mano per le sfide fra bevitori di birra.

All’estremità del nastro di plasma c’era una bolla di atmosfera che Heimdallr gettò nello spazio come un’esca attaccata alla lenza, fino a ripescare Zaphod. Il guscio di plasma diede al betelgeusiano un bello shock, quando penetrò all’interno tutto tremante, ma questo per Heimdallr non era un gran problema. L’unica preoccupazione, in merito al dolore di Zaphod Beeblebrox, era assicurarsi che ce ne fosse in abbondanza nel futuro prossimo; e anche nel passato prossimo, se avesse potuto farsi rilasciare da Odino un pass temporale.

Trascinò Zaphod e lo fece atterrare sul Ponte dell’Arcobaleno.

 

nota della guida Il termine “Ponte dell’Arcobaleno” è un esempio di quanto gli dèi in genere siano inclini alla retorica e alle iperboli. Osiride non ebbe una semplice influenza che lo stese per un paio di settimane, ma morì e resuscitò. Afrodite non aveva un semplice guardaroba pieno di camicette scollate e un’inesauribile scorta di poesiole sconce, no, era irresistibile per tutti gli uomini ovunque mettesse piede. E il Ponte dell’Arcobaleno non era un semplice ponte sospeso di geniale concezione fatto di acciaio e ghiaccio, era piuttosto, a detta degli AEsir, un vero ponte fatto di arcobaleni.

 

Zaphod sussultò per un minuto mentre il plasma evaporava, poi sospirò e si rese conto che i tacchi dei suoi stivali argentati si erano squagliati mentre aveva oltrepassato la barriera ionizzata.

«Oh, insomma» brontolò. «Ti rendi conto di quanti demonietti argirolingui ci sono voluti per fare questi tacchi? Questo è il peggiore dì della mia vita.»

Heimdallr incombeva su di lui, il suo ghigno ampio diversi metri.

«Sono lieto di sentirlo.»

«Quel ponte dell’arcobaleno è fatto di ghiaccio e acciaio» disse Zaphod petulante, a mo’ di ripicca per i tacchi degli stivali.

«Silenzio!» ruggì Heimdallr. «O sarai scotennato!»

«Sono già stato scontentato.»

«No, non scontentato.»

«Scontentato, non scontentato... Deciditi una buona volta.»

«Ho detto scotennato. Ti stacco la pelle dal corpo.»

Zaphod deglutì comicamente. «Ecco, adesso sono scontentato. Ho il permesso di esserlo?»

Heimdallr si strinse il naso fra le dita e recitò piano il primo verso della saga di Völsunga, che in genere giovava a calmarlo, ma stavolta neppure le imprese di Sigurd riuscirono a calmare il martellare del suo cuore.

Mentre Heimdallr recitava, Zaphod elaborava il lutto per i tacchi e decideva che aveva ben altri zuffoli da pormare. Balzò in piedi, subito cadde, cercò di recuperare la caduta imbarazzante con una capriola all’indietro, si rialzò nuovamente, barcollò per un momento prima di trovare un’andatura che andasse bene con degli stivali a tacco alto privi di tacco, infine si gratificò con una rotazione a trecentosessanta gradi.

«Wow» concluse. «Che dire, Heimdallr, avete proprio un mondo bello saltereccio, ragazzi. Voglio dire, wow. È una cascata quella? Quant’è alta?»

Heimdallr tentò con un ultimo verso prima di rispondergli. «È la fonte della giovinezza, se proprio ci tieni a saperlo. Frigga ha voluto abbellirla con una cascata decorativa.»

«Fantastico. L’architettura del paesaggio è il futuro.»

«No, non lo è» disse torvo Heimdallr. «Il Ragnarök è il futuro. Gli dèi moriranno e l’universo affogherà nel sangue.»

Zaphod annuì. «Ecco, quella sarebbe una fontana da visitare. Ma per adesso restiamocene sull’ottimistico, eh, gigantone? Non stiamo ancora affogando nel sangue.»

Heimdallr era gigantesco davvero, specie per chi lo vedeva direttamente dal di sotto. Sbirciare dal basso l’inguine di un dio può fare meraviglie per i casi di insufficiente mancanza di autostima. Specie se i contorni dell’inguine in questione sono fasciati da una tuta da sci aderentissima a strisce di color rosso e blu elettrico. Heimdallr trascorreva notte e giorno sul ghiaccio, e a quanto pareva aveva deciso di coprire quella zona. Aveva lasciato perdere i tradizionali gambali di cuoio di mammiferoide per sostituirli con degli scarponi da sci, e portava sulla fronte un paio di occhialetti color arancio e una striscia di crema protettiva sul naso.

«Dunque. Detesto affrettare le cose, ma sai, il mio vecchio amico, Thor. Non ti sarebbe possibile trovare un bel modo per permettermi di incontrarlo?»

La visione apocalittica di Heimdallr si dissolse, e il dio guardò in giù verso Zaphod.

«Ammenda, hai detto. Volevi fare ammenda.»

Zaphod s’incollò il suo sorriso più disarmante. «Be’, potrei aver detto così, non è vero? A mia difesa devo dire che non intendevo una sola parola di quello che ho dichiarato. Ero in stato di coercizione.»

«Conosci la prassi, Zaphod.»

«No, non quella delle imprese! Su, Heimdallr. È una roba così da vecchio mondo! Credevo che voi ragazzi vi teneste al passo coi tempi.»

«Asgard non cambia.»

«E che mi dici della cascata decorativa? Non c’era l’ultima volta che sono venuto.»

«Significativamente. Asgard non cambia significativamente. Tre imprese, Beeblebrox, se davvero ci tieni a parlare.»

«Tre! Non ho tempo per farne tre. Per le vostre imprese ci vuole un’eternità. Ne faccio una.»

«Tre» insisté Heimdallr, gli occhi che gli uscivano dalle orbite.

«Una!» ripeté Zaphod.

«Fanculo, io ti ammazzo e basta.»

Zaphod ciondolò all’indietro sui calcagni spuntellati, poi riciondolò in avanti. «Stai bluffando, bellone. Conosco le regole del posto. Nessuno viene steso qui senza che prima lo dica il Grande O.»

«Non provocarmi, guarda che lo chiamo.»

«Sì? E cosa ti trattiene? O forse Odino non dà il numero ai suoi guardiani?»

Heimdallr scosse il suo enorme capo. «Non farlo, Ballebrox. Non spingermi a chiamare l’amico. Non ti vede affatto di buon occhio.»

«Chiama, su. Ma tanto non lo farai, perché lui è il numero uno e tu... tu non hai neppure un numero. In questo momento Odino si starà godendo un bel corno di idromele e la tua chiamata potrebbe farglielo cadere, e allora, benedetto zark, scoppierà il Ragnarök.»

Heimdallr gli puntò un dito grosso come un siluro. «Giusto. Ecco. Lo chiamo.»

«Davvero? A me pare che tu stia solo parlando. Un gran cianciare e cianciare, ma non ti vedo granché affaccendato a premere tasti.»

«Tanto peggio per te, Zaphod» borbottò la divinità. «Non ti avevo chiesto che tre imprese. Quattro, al massimo.» Agitò il corno in un certo modo fino a che questo non si richiuse telescopicamente fino a stargli comodamente sul palmo della mano. «Ecco. Non si torna indietro.»

«Certo che sì, se sei un bufolazzaro patentato.»

«Bufolazzaro!» gracchiò Heimdallr con lo stesso tono soffocato di un Furetto Catarroso Folfangano quando qualcuno gli solletica la gola per estrarre il prezioso balsamo curativo presente nel suo muco. «Bufolazzaro, ah, è così?» Digitò un numero sulla tastiera del corno e continuò a borbottare mentre all’altro capo squillava.

«Sì, ciao, Ody, sono io» disse nel corno.

Heimdallr chiuse un occhio e sopportò qualche istante di insulti dal padre degli dèi.

«Okay. Scusa, lo so che hai un sacco di balle di plancton da ingurgitare, e so anche delle macchie di idromele. Se congeli la camicia vengono via... Ascolta, ho qui un tizio, un mortale. Vorrei solo il via libera per ammazzarlo.»

Altre ingiurie. Zaphod poteva facilmente cogliere il tono da tre metri sotto il livello del telefono.

«Lo so che non... conosco le direttive... Certo che ho letto il documento. .. o comunque tutti i punti sottolineati.»

Zaphod si distrasse dalla conversazione, già spazientito per quella situazione della quale non era protagonista. Da bambino, a Zaphod era stata diagnosticata una forma di ADHDADADAAADDDA(pnd)II, sarebbe a dire Autoindulgente Demente Ha Difficoltà A Distinguere Acqua Dalle Amfetamine Affetto Altresì Da Disordini Da Aerofagoiperflatulenza (per non dire) Intollerabile Idiota. Persino da adulto, Zaphod non era riuscito a gestire la sua condizione patologica perché non riusciva mai a ricordarne il nome.

“Un paio di D mi pare” aveva detto al suo fornitore di pillole su Eroticon 6 “e forse una A” e gli era stato somministrato un unguento per la DDA, ovvero Duodenomorroide Doppia Anoconvessa. Zaphod aveva smesso di utilizzare l’unguento dopo un paio di giorni perché non riusciva più a trattenersi.

Così, anche se Heimdallr e Odino stavano discutendo del suo immediato futuro e della quantità di torture a esso connesse, Zaphod si ritrovò a guardare svagato le luci scintillanti di Asgard. Era una splendida visione, persino per uno abituato allo splendore del meraviglioso spazio sconfinato.

Quanto a dimensioni, Asgard non era di certo una Megabrantis Delta, ma ciò che gli si parava davanti agli occhi era quantomai impressionante. Tanto per cominciare, c’era la cosa dell’incastonato nel ghiaccio”, che effondeva uno spettacolo di luci blu-argentee sull’intera superficie. La superficie stessa poi era tempestata del genere di peculiarità topografiche capaci di spingere un magratheano allo spionaggio industriale: fiumi che fluivano copiosi, alti picchi innevati e fiordi intricati come l’elettrocardiogramma di uno Svolazzocippo. Pianure gelate luccicanti coesistevano impossibilmente accanto ad appezzamenti di granturco dorato, il tutto immerso in raggi di sole che non si sarebbero mai potuti far risalire ad alcuna stella. Castelli torreggianti con draghi attorcigliati sulle guglie squarciavano le nubi. Era un mondo da sogno, se i sognatori in questione erano dei maschi a propulsione testosteronica che non erano mai stati costretti a comportarsi da adulti.

Heimdallr stava dicendo qualcosa.

«Hmmm?» disse Zaphod.

«Ho il disco verde» disse il dio, sorridendo allegro.

«Quale disco verde? Che devi farci con un disco verde?»

«È un modo di dire. Il disco verde significa, vai.»

«Dov’è che vai?»

«Da nessuna parte. Non devo andare in nessun posto.»

«E allora che devi farci, col disco verde?»

Heimdallr si strinse il naso fra le dita. «Così Sigfrido giunse alla corte di un potente capo chiamato Heimar; prese in moglie una sorella di Brunilde, ribattezzata Bekkhild, che aveva appreso le arti femminili, mentre Brunilde era stata cresciuta alle arti della guerra, ragion per cui ella era chiamata Brunilde.»

«Capisco» disse Zaphod, domandandosi se la pazzia potesse fornire una buona occasione per filarsela attraverso il ponte.

Come leggendogli nel pensiero, cosa di cui era probabilmente capace, Heimdallr bloccò il passo a Zaphod con un enorme scarpone foderato di pelliccia.

«Ho detto a Odino che eri tu.»

Zaphod divenne d’un tratto un po’ più inquieto di quanto non lo fosse stato. «E che ha detto?»

«Ha detto che sei un personaggio pubblico ben noto, e di rendere la tua morte un po’ confusa.»

«Confusa?»

Heimdallr si piegò e agitò Gjallarhorn riportandolo alla sua lunghezza originaria.

«Stai scuotendo il tuo corno riportandolo alla sua lunghezza originaria.»

«Intendo chiamare a raccolta i draghi.»

«In modo che possano ammazzarmi in maniera confusa» suppose Zaphod.

Il sogghigno di Heimdallr pareva ampio come una falce di luna. «Esatto, Beetlezozz. Li incaricherò di ammazzarti con un incidente che appaia come un omicidio.»

«Oh» disse Zaphod. «E delle imprese che mi dici? Dovrà esserci un’ascia d’oro che vuoi ti cerchi da qualche parte.»

«Volevi un’impresa» disse Heimdallr. «È esattamente ciò che avrai.»

Zaphod si alitò nelle mani. «Bene. Fantastico. Diamoci dentro allora, no? Sto congelando. Il mio secondo colletto sente freddo, che, guarda caso, è proprio il titolo del mio prossimo album.»

«È una missione semplice» disse Heimdallr con aria innocente. «Non devi far altro che attraversare il ponte.»

“Attraversare il ponte” pensò Zaphod. “Mi suona familiare. Ma è anche vero che ‘ponte’ è una parola piuttosto comune. E spesso utilizzata anche in senso metaforico.”

«Che ponte?»

«Questo ponte!» ruggì Heimdallr, la barba percossa da un fremito. «Questo maledetto ponte sul quale ti trovi.»

«Okay. Stavo solo cercando di capire bene i dettagli. Attraversare questo ponte sul quale mi trovo. C’è altro?»

«C’è un tunnel di pseudoatmosfera, così non perderai i sensi. Nel caso dovessi arrivare al primo muro, dovrai arrampicartici.»

“Devo arrampicarmi su quel muro. Familiare. Ma la parola ‘muro’ è ancora più comune di ‘ponte’.”

«Dunque, attraversare e arrampicare. Niente trucchetti?»

«A parte i draghi che cercheranno di farti cascare nell’abisso? No.»

Zaphod si accigliò. «Quindi i draghi non sono draghetti amichevoli, che cantano canzoncine e roba così, come nei libri per bambini?»

«Cantano, sì, dei canti funebri.»

«Davvero? Cos’è che fa rima con “scotennare”?» Un raro lampo di acume intuitivo da parte di Zaphod nel peggior momento possibile.

«Oh, molto bene. Hai appena sprecato dieci secondi del tuo vantaggio iniziale.»

Heimdallr assunse una posa eroica, cosa non facile quando si è infagottati in una tuta da sci, ma in tutta onestà il dio se la cavò bene. Sollevò il corno e soffiò una lunga serie di note altalenanti che avevano una sospetta somiglianza con la vecchia filastrocca per bambini betelgeusiana “Ciukka Smarikka sedeva su una cicca”, ma con un semitono di violenza implicita in più.

Zaphod sentì un brivido improvviso nella cicatrice dove solitamente c’era il secondo collo. Si rigirò su quelli che fino a poco prima erano stati i suoi scintillanti tacchi d’argento e corse come una furia nel tunnel di pseudoatmosfera, attraverso il cosiddetto Ponte dell’Arcobaleno.

 

 

Buroincrociatore Iperspaziale vogon, la Protok-Ol

 

Il costante Mown era seduto nella nicchia iperspaziale nel suo studio personale, e tremolava mentre la Protok-Ol usciva ballonzolando dall’iperspazio, in modo non dissimile da un giornalista betelgeusiano ubriaco che esce barcollando da dietro un cespuglio con la vescica svuotata (e per vescica svuotata si intenda quella del giornalista, non del cespuglio, a meno che non si stia parlando di un arbusto di Quantalta, che espelle i suoi semi in una soluzione lievemente acidula quando la sua chioma coglie dell’umidità. In sostanza, tu ci pisci e lui ti ripiscia).

“Ancora altri otto salti” pensava Mown. “E potremo cancellare un’altra specie.”

E in realtà l’idea non gli dava tutta quella soddisfazione che avrebbe dovuto. Certo non esisteva piacere più grande, per un vogon, che chiudere un incartamento riguardante un ordine esecutivo, ma il costante Mown non era forse il maledetto bastardo che suo padre voleva credere. In realtà, negli ultimi mesi, quando Mown aveva cercato dentro di sé quel duro nocciolo vogon che occorreva per portare a termine alcuni dei suoi incarichi più disgustosi, al posto dell’acciaio e del kroompst aveva trovato sensibilità e addirittura empatia. Era terribile, spaventoso. Come avrebbe mai potuto un costante essere promosso prostetnico, con emozioni annacquate e insulse come quelle che gli sciabordavano nella protuberanza pensante?

“Non voglio diventare un prostetnico. Non voglio neppure diventare un burocrate esperto in atti coattivi.”

Oh, certo, sul ponte Mown faceva il buon vogon, agitava le braccia-spaghetti per salutare il papino, si mostrava euforico a proposito dei Siluri da Decesso Inutilmente Lento e Doloroso, ma nel profondo della sua pompa sanguigna non si sentiva così.

“Non voglio uccidere nessuno, neppure avendo le apposite autorizzazioni cartacee.”

Mown dovette fare qualche respiro profondo prima di riuscire a comporre il pensiero successivo.

“Esistono cose più importanti delle autorizzazioni cartacee.”

Lo disse a voce alta.

«Ci sono cose più importanti delle autorizzazioni cartacee!»

D’un tratto il piccolo vogon sentì qualcosa in gola, ma era così accalorato che non riuscì a godersela. Mown rotolò giù dalla nicchia iperspaziale e si mosse a tentoni lungo lo scolatoio disposto accanto al letto, fino a che non trovò una coppetta raccoglibava dove sputazzare.

“Ora va meglio.”

Davvero l’aveva detto a voce alta? Cosa gli stava succedendo?

Mown si chinò con delicatezza sul suo giaciglio, un atto che avrebbe sorpreso a morte i suoi compagni di navigazione. I vogon non avevano in genere i mezzi per chinarsi con delicatezza su alcunché. Lasciarsi cadere in malo modo o crollare ignominiosamente erano le opzioni principali a disposizione della razza vogon. Rialzarsi era addirittura peggio che sedersi. Alzarsi da qualsiasi cosa più bassa di uno sgabello da bar in genere implicava una contusione al coccige, un complesso sistema di pesi e carrucole e diversi litri di bava. Ma Mown possedeva una cosa fino ad allora sconosciuta, fra i vogon. Mown aveva un briciolo di grazia.

Agitò un paio di dita sotto l’asse-materasso ed estrasse un piccolo oggetto proibito di plastica rosa. Fece scivolare l’oggetto sotto una coscia molle e cincischiò inquieto per qualche istante, cercando di raccogliere in sé il kroompst che occorreva per tirarlo fuori.

«Questa è l’ultima volta» promise a se stesso. «Un’occhiatina, e poi me ne sbarazzo. Mai più. Assolutamente l’ultima volta.»

Guardami, disse l’oggetto rosa, tiepido sotto la stoffa dei suoi calzoni attillati. Guardami e ammirati.

Le dita di Mown tamburellarono sulla cornice e poi, con un improvviso impulso di coraggio, afferrò la maniglia di plastica e lo cavò fuori.

L’oggetto era uno specchietto di plastica di Barbie, acquistato in un mercatino di gingilli a Port Brasta. Autentici cimeli terrestri. Gli specchi erano proibiti a bordo della nave, perché i vogon si deprimevano già abbastanza anche senza guardare i loro grugni su dei vetri luccicanti.

 

nota della guida I vogon erano riusciti a sopravvivere a certe estrospezioni. A parte gli sprezzanti tentativi nelle arti poetiche, la gran parte dei vogon cercava di focalizzare le proprie attenzioni soprattutto su altre specie per evitare di soffermarsi sulle proprie innumerevoli carenze fisiche e psichiche. Ben di rado i vogon trascorrevano del tempo nelle vasche natatorie, non meditavano mai in padiglioni termali e di certo non stavano a osservare allo specchio i loro volti deformi e bitorzoluti. L’unica razza che fosse mai riuscita a mandare a monte un ordine vogon di demolizione planetaria era stata quella dei Tubavix di Sinnustra, che erano riusciti a inviare alla flotta vogon un virus riformatta-schermo che aveva trasformato tutti i loro monitor in specchi. Cinque minuti dopo il caricamento del virus, le navi vogon avevano cominciato a spararsi siluri a vicenda.

 

Mown si guardò allo specchio e non provò alcuna repulsione. A dirla tutta, gli piacque quello che vedeva.

“Oh mio dio” pensò. “Che mi sta succedendo?”

Qualcosa era davvero accaduto a Mown. Pochi mesi prima, il suo grumo di farinata della colazione s’era intercontaminato con la punta del tentacolo diuna citromedusa, che aveva trasmesso nel suo organismo una quantità di enteogeni appena sufficiente a stuzzicarlo a riconoscere qualcosa che aveva già sospettato.

“Io non mi odio.”

Si trattava di un pensiero rivoluzionario, se non addirittura eretico, da parte di un vogon, e di certo avrebbe causato l’espulsione di Mown dai corpi burocratici, semmai l’avesse lasciato trapelare durante il test psicoattitudinale. Questo, qualora i corpi burocratici avessero avuto dei test psicoattitudinali.

E, nell’ultimo periodo, il costante Mown era andato persino oltre il semplice covare quel pensiero.

«Non mi odio» sussurrò rivolto allo specchio. «Sotto diversi profili nell’insieme non sono affatto male.»

E se Mown non si odiava, cos’avrebbe mai potuto rivolgere all’universo? Se non proprio dell’amore, di certo una sua versione bonaria, annacquata.

“Mi piaccio. Dunque, forse, anche ad altri potrei piacere.”

«Non se prima li uccido» disse Mown torvo allo specchio.

Già la prima volta gli aveva fatto del male vedere i terrestri sterminati; se fosse accaduto ancora, sarebbe potuto arrivare a odiarsi.

Mown strinse le dita attorno al piccolo specchietto.

“Perché ho detto a mio padre della colonia?”

Ma conosceva la risposta a quella domanda.

“Gliel’ho detto perché è una notizia alla portata di tutti, e ne sarebbe venuto a conoscenza, e allora io sarei stato quello che non gliel’aveva detto. E senza di me, i terrestri non hanno alcuna possibilità.”

Mown rivolse un lieve sorriso al suo riflesso, poi infilò lo specchietto sotto l’asse-materasso.

“Dev’esserci un modo” si disse. “Un modo per salvare gli umani senza farmi sputare fuori da un portellone.”